In scena al Teatro Argentina dal 7 all’8 ottobre nell’ambito del Romaeuropa Festival
Silvia Mozzachiodi
Foto di Dieter Hartwig
Diana, Even di Kat Válastur, in programma al Romaeuropa Festival dal 7 all’8 ottobre, è una rilettura in chiave moderna della figura mitologica di Diana, dea della caccia. La coreografa, di origine ateniese ma residente a Berlino, ha trovato nel mito uno strumento ideale per esplorare attraverso la danza le tensioni che affliggono la società contemporanea. In Diana, Even l’interpretazione della dea da protettrice delle donne a preda non può non richiamare un tema tragicamente attuale, quello dei femminicidi. La performance, immersa in uno spazio nebbioso e notturno, è pensata per quattro danzatrici e quattro cantanti del Pleiades Vocal Group, riproponendo così quel solido legame che univa danza e musica nell’antica civiltà greca.
Diana, Even
Crediti
Ideazione e coreografia: Kat Válastur
Performance: Xenia Koghilaki, Malika Lamwersiek, Ogbitse Omagbemi, Tamar Sonn
Cantanti: Pleiades Vocal Group (Aliki Atsalaki, Stella Grigovits, Vassula Delli, Eirini Kyriakou)
Luci e direzione tecnica: Martin Beeretz
Stage design: Leon Eixenberger
Assistenza disegno luci: Vito Walter
Assistente stage design: Cecilia Nercasseau Gibson
Sound design: Cesar B.
Assistente sound design e ingegnere del suono: Vangelis Tsatsis
Assistente alla coreografia: Lena Klink
Costumi: Marie Gerstenberger / werkstattkollektiv
Consulenza drammaturgica: Filippos Telesto, Yiannis Papachristos
Production management: Sina Kießling
Touring e Distribution: Nicole Schuchardt
Biografia
Kat Válastur (nata ad Atene, Grecia) è una coreografa e performer. Dal 2007 vive e lavora a Berlino. I suoi lavori coreografici sono definiti dalla creazione di esperienze trasformative sul palco. Attraverso l’uso del mito come strumento, crea una condizione carica di esperienze storiche, fittizie, sociali e personali. Questa costruzione mitica che canalizza la realtà diventa un topos speculativo e un campo di forza che gli interpreti abitano. Le condizioni coreografiche che crea e che chiama “i campi di forze” sono il terreno per lei e per gli interpreti per manifestare i modi in cui il corpo resiste attivamente alle strutture di potere attraverso la costruzione di un linguaggio di danza che ha il suo fulcro nell’elemento della trasformazione.